Dopo le esternazioni del ministro Salvini sul possibile ritorno di un nuovo ‘mini’ condono edilizio, ecco un approfondimento a maglie larghe sul tema: le norme di prevenzione e repressione degli abusi attuali, le norme sul pregresso, la responsabilità degli insuccessi, l’inefficacia delle norme attuali, la repressione materiale, la verifica delle forze in campo

Non è un nuovo romanzo di Gabriele D’Annunzio. Sembra piuttosto una roulette russa e in effetti nasconde qualcosa di letale.

Un dibattito perenne che rischia di diventare surreale prima ancora che ideologico dal quale bisognerà pur uscire prima o poi perché la conservazione dello stato attuale e l’inerzia decisionale crea comunque disomogeneità intollerabili in un Paese civile.

Al di là di posizioni preconcette il tema – assolutamente concreto e reale – merita un approfondimento tecnico possibilmente scevro di retropensieri per cercare una soluzione utile e praticabile.

Tutte le volte che c’è qualche esternazione pubblica sul condono si accende la discussione (o forse meglio dire, la polemica), che però appare sempre più flebile e che si spegne con la stessa rapidità con cui si è innescata (forse per evitare imbarazzanti revivals) per riemergere poi periodicamente un po’ come una cattiva coscienza.

Difficile parlare di condono edilizio senza sollecitare prese di posizioni ideologiche e moralistiche, ma l’attenzione suscitata sul tema in questi giorni da dichiarazioni di un esponente del Governo non ci esime dall’affrontare un tema sicuramente spinoso nel nostro Paese.

A partire dal 1985 – e poi successivamente con altri due tentativi – il Legislatore ha riproposto il tema del condono, ma le norme fin qui emanate hanno fallito sostanzialmente il loro obiettivo perché sono state male applicate.

Abbiamo già affrontato l’argomento in passato in epoca non sospetta in un articolo titolato (guarda caso) “Abusivismo edilizio, repressione, condono: quando i nodi vengono al pettine …” quando avevamo commentato la legge n. 47/85 (soprannominata “legge del condono “o “prima legge del condono”).

Denominazione quanto mai impropria perché la n. 47/85 era stata concepita come una legge strutturale di riordino in materia di vigilanza e repressione degli abusi (“… controllo dell’attività urbanistico-edilizia” questo il titolo originale) di cui il condono era solo un’appendice.

Le norme a regime di prevenzione e repressione degli abusi attuali

Sull’efficacia della riforma in materia di controllo e prevenzione dell’abusivismo potremmo discutere a lungo perché in effetti le sue norme sono state innovative sì, ma gli effetti sono stato ben lungi da quanto si era sperato.
Il fenomeno non è stato estirpato.

Le norme sul pregresso

Per quanto riguarda il condono (e cioè il pregresso) dobbiamo riconoscere che sicuramente l’applicazione è stata disastrosa; forse qualcuno non l’ha probabilmente condiviso, sicuramente non sono state applicate seriamente le finalità del Legislatore limitandosi – nella migliore delle ipotesi – a fare cassa operando in maniera disomogenea sul territorio nazionale.

Le responsabilità dell’insuccesso

Nessuno può accampare alibi in tal senso addebitando il fallimento alla legge; il fallimento è conseguito alla sua disattenta applicazione. O, se vogliamo, anche ad un atteggiamento culturale opportunistico e di comodo.

L’intento del Legislatore all’epoca era quello di fare l’ora zero e di riportare a legittimità tutti gli immobili del Paese, facendo emergere una diffusa illegalità che si era manifestata negli anni del dopoguerra (forse in parte giustificata all’epoca dall’entusiasmo e dalla concitazione della “ripresa”) ma che poi, possiamo dire, prosegue purtroppo anche oggi (quando di ripresa non si parla più e semmai si discute di sopravvivenza e di “tenuta” del sistema economico).

Un esame di coscienza – Pochi possono chiamarsi fuori

A parte pochi casi virtuosi dobbiamo riconoscere un’indubbia generalizzata responsabilità:

dei professionisti che – sovraccaricati da una mole di richieste concentrate in tempi ristretti – hanno prodotto elaborazioni spesso incomplete e approssimative (che oggi emergono);
delle pubbliche amministrazioni che, o hanno distrattamente approvato senza adeguati controlli, o hanno lasciato ammuffire le richieste negli archivi (tanto c’era il silenzio assenso).

Oggi ne scontiamo le conseguenze.

Cambiati i tempi, cambiate le prassi e le sensibilità ai dettagli, oggi non c’è pratica edilizia di cui si possa attestare serenamente la “legittimità” ad un esame retrospettivo.

L’approssimazione del passato si ripercuote come una sorta di nemesi storica sui successori degli operatori (pubblici e privati) di ormai quarant’anni fa.

L’(in)efficacia delle norme attuali

Dobbiamo partire da qui se vogliamo fare un ragionamento serio sulla riforma che non può essere una norma tampone e occasionale (e non deve essere neppure a termine per non ricreare quei congestionamenti della volta scorsa) ma deve riguardare in maniera organica tutta la materia prendendo atto del fallimento dei precedenti tentativi e del perché questi fallimenti si siano verificati.

Se prendiamo atto dei fallimenti (e delle loro motivazioni) dobbiamo evidentemente riconoscere che non possiamo continuare a mantenere un’enorme parte del patrimonio edilizio illegale che tale è rimasto nonostante i ripetuti tentativi di farla emergere.

Tentativi che si sono articolati seguendo due possibili e contestuali strade:

la “soluzione muscolare” (per così dire), ovvero la repressione materiale con la demolizione da parte della mano pubblica;
la “soluzione giuridica”, che potremmo definire della “misconoscenza” o, per dirla in latino, del “tamquam non esset”: ovvero considerare le opere abusive come inesistenti “bandendole” dall’utilizzabilità e dalla commerciabilità. Una sorta di “esclusione socio-economica”.

La repressione materiale

Sul tema del controllo e della repressione degli abusi in generale bisogna pur dire che le norme attuali sono sostanzialmente inefficaci o inapplicate e anche le recenti modifiche in materia – che hanno previsto per esempio l’intervento delle Prefetture e del Genio militare in casi di demolizioni rimaste ineseguite dalle amministrazioni comunali – non mi pare abbiano dati grandi risultati.

Non sono deterrenti.

Sarebbe interessante fare una statistica a livello nazionale che ci dica quante sono le demolizioni eseguite dai Prefetti tramite le forze armate; per verificare con mano l’efficacia reale di norme tampone eccezionali sempre presentate come salvifiche e risolutive.

L’inutilizzabilità e incommerciabilità

Le norme in tal senso – inizialmente pensate coercitive e tassative – come il diniego di fornitura di servizi pubblici o la non commerciabilità sono state subito stemperate e di fatto disinnescate.

Possiamo benissimo oggi compravendere edifici con difformità edilizie senza la loro preventiva rimessa in regola perché gli atti che le riguardano non sono nulli se l’acquirente è acquiescente. E utilizzarli in quanto forniti di servizi pubblici.

Ne abbiamo già detto in “Certificazioni tecniche e nullità dei rogiti”.

Anzi, proprio in quell’occasione abbiamo verificato che dagli immobili abusivi incassiamo le tasse.

Per questo abbiamo precisato che applichiamo il principio di “misconoscenza” ma non quello dell’“oblio”; ovvero vorremmo disconoscere agli edifici abusivi la capacità di produrre effetti positivi, ma non vogliamo dimenticarli per quelli im-positivi.

Il che non è mica tanto “etico”.

E mette in luce una contraddizione perversa: di fatto l’inefficienza della repressione favorisce la tassazione.

Se prendiamo atto allora della impossibilità di mantenere un patrimonio illegale consistente che continua in ogni caso ad essere tranquillamente utilizzato e compravenduto e le cui irregolarità emergono solo di tanto in tanto in maniera occasionale e se teniamo conto della impossibilità, dimostrata nei fatti, di portare tutto quanto a norma attraverso interventi di demolizione o di riduzione in pristino, il tema del condono si pone al di là di ogni atteggiamento moralistico sul quale possiamo pure essere tutti d’accordo, ma che porta ad una situazione di stallo ugualmente ipocrita.

Etica o pragmatismo? O forse tutti e due

Allora sentire oggi affermazioni apodittiche di chi si scandalizza che il fenomeno ci sia solo perché “non dovrebbe esserci” e per questo rifiuta di parlarne, lascia il tempo che trova, perché il fenomeno c’è e sarebbe farisaico dire che non esiste.

Non aiuta a risolverlo e conferma il permanere di una situazione illogica e distorta.

D’accordo allora che si tratta di intervenire ledendo principi di etica e di morale ma altrettanto d’accordo dobbiamo essere nel riconoscere l’impossibilità di operare diversamente un ripristino della legalità di tutti questi immobili.

Soprattutto deve (ripeto “deve”) trattarsi di un provvedimento organico strutturale e non estemporaneo, affrettato, episodico (come spesso avviene) e non finalizzato a “fare cassa”, ma a risolvere il problema, il che comporta rivedere anche il sistema sanzionatorio-repressivo nel suo complesso.

Perché sia efficace e dissuasivo e non presti alibi all’applicazione.

Come sarà la dimensione di un possibile condono è tutto da vedere. Ma non è solo un problema giuridico.

La verifica delle forze in campo

Certo è che aldilà della quantificazione e dell’individuazione delle regolarità che possono essere sanate bisogna mettere in conto anche la capacità effettiva di potere poi eseguire quanto sarà disposto eventualmente dalla legge, aspetto questo che è stato prevalente – come abbiamo già detto – nel sancire il fallimento della precedente normativa.

Qui sorge spontanea una domanda, anzi due.

La prima sull’effettiva capacità delle classi professionali di affrontare correttamente il problema della predisposizione degli atti di sanatoria in tempi ristretti.

La seconda, sulla capacità e adeguatezza della pubblica amministrazione di poter gestire un’attendibile importante mole di richieste.

L’esperienza precedente non ha dato risultati entusiasmanti.

Problema non da poco viste le attuali condizioni delle strutture delle pubbliche amministrazioni che sono quasi sempre sotto organico perché una politica irragionevole di questi ultimi anni ha portato ad un depauperamento delle strutture pubbliche.

Come testimoniano gli attuali affannosi quanto tardivi tentativi di arruolamento nella pubblica amministrazione per far fronte alle tematiche del PNRR; arruolamenti che pare siano poco appetiti dalla collettività dei tecnici. Chissà perché.

Possiamo gravare la P.A. di altri incombenti senza che soccomba? O senza andare incontro ad un nuovo fallimento?

Dobbiamo essere ben consapevoli anche che un pubblico dipendente non si crea dalla mattina alla sera semplicemente facendo un concorso e assumendolo.

Un pubblico funzionario degno di questo si forma tramite l’esperienza di anni all’interno delle strutture. E certamente le continue evoluzioni normative non aiutano il formarsi di una operatività più efficiente.

Inutile fare un provvedimento di legge se poi non abbiamo le forze per farlo applicare.

E di questo deve preoccuparsi il Legislatore quando la scrive.

Non basta scrivere in calce alla legge la frase di rito: “E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e farla osservare …. ” bisogna anche che quel “chiunque” ne sia capace.

Le perplessità e le criticità or ora sollevate non devono però essere motivo o alibi per non affrontare il problema, ma solo presa di coscienza di uno stato di fato di cui occorre tener conto per non avventurarsi in illusorie semplificazioni foriere di presumibili fallimenti.

Il problema c’è e rimane sul tappeto e non possiamo pensare di risolverlo mettendoglielo sotto.

Fonte – ingenio-web.it