Nei prossimi 20 anni almeno 1.400 miliardi di euro di asset passeranno di mano. Con inevitabili effetti sul mercato.
Programmare per tempo il passaggio generazionale è una strategia per ridurre i costi ed evitare di innescare
contenziosi legali tra familiari. Ecco i pro e i contro degli strumenti più utilizzati
Lo scenario, tra asset in movimento e inverno demografico
Una gran quantità di asset pronta a invadere il mercato del mattone: nei prossimi 20 anni almeno 1.400 miliardi di euro di immobili finiranno in successione e in buona parte si aggiungeranno al flusso fisiologico di tentate vendite, in un quadro demografico complicato, con una popolazione in calo in numeri assoluti, sempre più anziana e con una quota maggiore di nuclei familiari monocomponenti. Per farla breve: aumenterà il numero di alloggi in offerta e ci saranno meno soggetti interessati all’acquisto. Se si considera anche che il patrimonio immobiliare italiano è mediamente composto da edifici vecchi e spesso bisognosi di ristrutturazioni antieconomiche si porrà un enorme problema sistemico. Ma i problemi ci sono anche a livello della singola famiglia: predisporre per tempo le cose al meglio per il proprio patrimonio immobiliare (ma il discorso vale e anche per le aziende) significa ottimizzare costi di gestione e tasse, cercare di non far perdere valore ai propri asset ed evitare in prospettiva che il passaggio generazionale si trasformi in una fase altamente conflittuale.
Il passaggio generazionale
Le cronache sono piene di racconti di eredi di famiglie miliardarie che litigano senza tregua nelle aule di tribunale, ma spesso basta che nel patrimonio di una famiglia ci siano due appartamenti e due eredi perché la suddivisione finisca davanti ai giudici. Si è parlato di passaggio generazionale degli immobili in un convegno incentrato sulla presentazione di uno studio di Sarpi Group, ricco di dati, in parte raccolti direttamente e in parte ricavate da fonti ufficiali come Banca d’Italia, Istat ed Agenzia delle Entrate.
Il patrimonio immobiliare delle famiglie italiane è stimato in 5.547 miliardi: il residenziale pesa da solo per il 45% della ricchezza netta nazionale e per l’83,7% dei beni reali. In venti anni la quota del mattone è scesa pochissimo (1,3 punti in meno rispetto al 2003) e solo perché il mercato di una buona parte del Paese non si è ancora del tutto ripresa dagli shock del 2007-2008 e del 2011-2012. Oggi il 28% dell’immobiliare italiano è posseduto da over 65. Nel 2040 la percentuale salirà al 42%. E se ci si spinge appena un po’ più in là, al 2050, gli scenari demografici dicono che ci sarà un ragazzo fino ai 14 anni ogni tre over 65.
Non basta la successione
Sono ragionamenti largamente diffusi in ambito previdenziale: di fronte alla prospettiva di un futuro prossimo che vedrà equivalersi il numero di attivi e inattivi, chi comincia oggi a lavorare dovrà aspettare più a lungo perseguendo una complicata continuità contributiva per avere una pensione bassa. Chi ha degli immobili da lasciare ha qualche carta da giocare in più per evitare il deprezzamento dei suoi beni e anche per far pagare, del tutto legittimamente, meno tasse agli eredi. Come spiega il presidente di Sarpi Group Emanuele Barbera, «se si demanda tutto alla successione, gli immobili non vengono materialmente divisi, ma ciascun erede diventa proprietario di una quota dell’intero bene. Questo significa che ogni decisione, dalla vendita all’affitto fino all’utilizzo personale, deve essere condivisa da tutti i coeredi. È facile immaginare le conseguenze: un figlio che vuole liquidare la propria parte per avviare un’attività, una sorella legata affettivamente alla casa di famiglia, un coniuge intenzionato a viverci, un altro erede che sogna di trasformarla in un B&B. Le divergenze, spesso alimentate da motivazioni economiche ed emotive, possono degenerare in contenziosi lunghi e costosi».
Dal testamento al trust (per i più facoltosi): gli strumenti
Certo, per la situazione ideale di coniuge e/o di un solo figlio che hanno diritto all’eredità per successione legittima — se si è intenzionati a lasciare tutto a loro — il testamento non è indispensabile, ma qualora le cose non siano così sarebbe meglio giocare d’anticipo. La prima cosa da fare è far valutare il patrimonio immobiliare pur sapendo che all’apertura della successione non è affatto detto che i coeredi si trovino d’accordo sulla valutazione. Poi si può ricorrere, avvalendosi della consulenza di professionisti come notai, avvocati, commercialisti, di strumenti che consentono di anticipare le proprie volontà: con la donazione, la scissione tra nuda proprietà e usufrutto o il combinato dei due istituti. Oppure, per patrimoni molto rilevanti, la creazione di un trust o la stipula di patti di famiglia, uno strumento molto efficiente per il passaggio di quote societarie ma applicabile agli immobili solo se legati all’attività aziendale.
Quando conviene anticipare la successione
Un numero fa molto riflettere: solo il 15% delle successioni in Italia avviene a seguito di testamento. Per una spiegazione almeno parziale di una percentuale così bassa si potrebbe pensare che molti non lasciano scritte le loro ultime volontà per scaramanzia. Poi però capita (è successo anche con personaggi molto famosi) che chi conviveva senza matrimonio o unione civile alla morte improvvisa del partner non può ricevere nulla, mentre il patrimonio viene suddiviso tra nipoti, cugini, figli di cugini magari non frequentati dal de cuius per decenni. Se fare testamento è la prima mossa, la seconda, ancora più importante, è suddividere nel migliore dei modi i beni e con trasparenza. Se si ha un buon rapporto con i figli si possono anticipare loro i contenuti e nel caso anche discuterne, tenendo presente che in linea di massima è meglio lasciare beni liquidi che immobili. Se ad esempio si dispone di una seconda casa poco utilizzata, e ai figli non interessa, è molto meglio venderla prima che cada in successione.
Si dirà: si può aspettare, tanto le imposte di successione per i figli non ci sono se l’eredità è sotto il milione. È un affermazione formalmente corretta ma di fatto imprecisa, perché in realtà sugli immobili che non siano prima casa per gli eredi si paga, oltre all’imposta di successione, il 3% sulla rendita catastale moltiplicata per 126. Non solo: gli eredi continueranno a pagare su quella casa l’Imu fin quando non riusciranno a venderla. Lasciare ai figli il ricavato della vendita della casa effettuata prima del decesso invece non comporta il pagamento di nessuna imposta. E a maggior ragione bisognerebbe liquidare il patrimonio immobiliare in eccesso se si immagina che non vi sarà accordo tra gli eredi, perché, i tempi di vendita degli immobili in successione sono più lunghi di quelli standard. Per un appartamento ereditato la media è di sei mesi e mezzo, per una villa si sale a oltre otto mesi, mentre per un rustico in aree interne si può arrivare a dieci mesi. Se mancano però, come capita spesso, alcuni documenti relativi alla regolarità degli immobili i tempi salgono a oltre un anno e si arriva a tre se si passa per le aule del Tribunale.
La donazione? Con le nuove norme è più facile (e meno rischiosa)
Le donazioni sono un anticipo di eredità e oggi hanno un appeal maggiore che in passato grazie a due recenti provvedimenti. Il primo, il decreto legislativo 139 del 18 settembre 2024, ha abolito il cosiddetto «coacervo successorio» a partire dal 1° gennaio di quest’anno. Il secondo è l’articolo 44 della legge 182/2025, in vigore dal prossimo 18 dicembre. L’abolizione del «coacervo successorio» ha impatto su patrimoni rilevanti e destinati in eredità al coniuge, ai figli o ai genitori o a persona affetta da invalidità, e, in misura molto minore, ai beni destinati ai fratelli. Si è affermato il principio che donazione e successione hanno tassazioni indipendenti. Con il risultato che, se si vogliono destinare fino a due milioni di euro (in qualsiasi forma) a un figlio, questi non pagherà nemmeno un euro di imposta se si avrà l’accortezza di dividere il patrimonio in donazione e successione, perché in entrambi i casi scatta la franchigia di un milione. Per i fratelli il risparmio è molto minore, ma non trascurabile perché la franchigia è limitata a 100 mila euro.
Va ricordato che i beni donati rientrano nel computo dell’asse ereditario ed è questa la ragione per cui è molto importante anche il secondo provvedimento, che sblocca la vendita di immobili ricevuti per donazione. Al decesso del donante, se una volta fatti i conti si scopre che il donatario ha ricevuto beni di valore superiore a quanto gli spettava, può essere chiamato a rimborsare gli eredi: i guai nascevano quando il dono è rappresentato da un immobile e si pensava di venderlo. Le norme in vigore fino al 18 dicembre prevedono che, in caso di lesione dei legittimari, i danneggiati possono chiedere il rimborso dell’eccesso al donatario e, se si trattava di un immobile oramai venduto, possono addirittura chiedere la revoca della vendita. La conseguenza è che si riesce a vendere difficilmente e stipulando un’apposita polizza, richiesta sempre dalla banca se di mezzo c’è la richiesta di un mutuo. Con la nuova norma gli eredi «danneggiati» possono rivalersi solo sul donatario e non sul terzo acquirente dell’immobile, eliminando così i rischi connessi all’acquisto.
Nuda proprietà-usufrutto: giù la burocrazia e le tasse
La donazione può anche riguardare la sola nuda proprietà di un immobile, già posseduto o acquistato con la cosiddetta «riserva di usufrutto», per poi passarlo senza problemi all’erede, con pratiche burocratiche limitate alla richiesta di voltura catastale e con un regime fiscale favorevole. L’acquisto della nuda proprietà di un immobile da privato paga un’imposta di registro ridotta, in funzione dell’età dell’usufruttuario. Il calcolo avviene sulla base di coefficienti moltiplicatori del tasso di interesse legale. Per fare solo due esempi, se si acquisisce la nuda proprietà da un sessantenne per il fisco l’usufrutto a vita equivale al 60% della proprietà piena e quindi le imposte per l’acquisto della nuda proprietà sono limitate al 40% rispetto all’importo ordinario. Se l’usufrutto resta a un 80enne per il Fisco vale il 25% della piena proprietà e quindi per la nuda proprietà si paga il 75% dell’imposta. Si può anche comprare una prima casa mantenendo l’usufrutto e lasciando contestualmente a un figlio la nuda proprietà con un medesimo atto.
Un’interpretazione restrittiva delle norme della legge di Bilancio 2024 aveva portato l’Agenzia delle Entrate (risposta a interpello n. 133/2025) a sostenere che il venditore avrebbe dovuto dichiarare, tra i redditi diversi, i proventi della vendita dell’usufrutto, bloccando di fatto le operazioni. Per superare il problema si è dovuta introdurre una nuova norma, presente nel decreto legge 84/25. Non disponiamo di statistiche ufficiali, ma stando a quanto nel tempo ci hanno dichiarato i notai interpellati, una forte maggioranza di atti riguardanti la cessione di nuda proprietà non avviene tra estranei, ma è effettuata per razionalizzare il patrimonio familiare. Le vendite effettive di nuda proprietà sono spesso fatte da famiglie che hanno bisogno di integrare i loro redditi, ma anche per i venditori vale ribadire che, se ci sono eredi è meglio trattare l’operazione mettendoli al corrente. I figli potrebbero decidere, se ne hanno la possibilità, di integrare il reddito dei loro genitori, evitando una vendita che spesso ha anche risvolti psicologici pesanti e che, se si fa pressati dal bisogno, non consente di ottenere condizioni favorevoli.
